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Music News di Augusto Sciarra

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24-02-2017 18:57

Music News di Augusto Sciarra

(corriere.it)
“Il ricordo di mio padre nel lager nazista, l’estate da rock star, i figli”. Vasco Rossi si racconta. Il cantante parla in un’intervista di Aldo Cazzullo al settimanale Sette. “Mi chiamo Vasco come un compagno di prigionia di mio papà”.
“Mi chiamo Vasco come un compagno di prigionia di mio padre. Dopo l’8 settembre i tedeschi lo portarono nel campo vicino a Dortmund, in Germania. Papà, che si chiamava Giovanni Carlo, fu uno dei 600 mila che preferirono restare nei lager piuttosto che combattere al fianco dei nazisti. Il campo fu bombardato, lui cadde nel cratere di una bomba, questo Vasco lo tirò su, gli salvò la vita. Non si rividero più, non so se sia sopravvissuto. Tanti suoi amici morirono di fatica. Papà tornò a casa dopo due anni. Pesava 35 chili. Ci è rimasto il suo diario. Non riusciva a vedere i film sull’Olocausto, erano emozioni troppo forti per lui”.

“Sono nato sopra l’osteria di mio nonno Breno, a Zocca. Sono cresciuto nel periodo più felice degli ultimi duemila anni. La guerra era finita, finito il fascismo, finite le esecuzioni di massa dei tedeschi. Gli scampati e i neonati erano vivaci, allegri. Il nonno aveva fatto la Grande Guerra. Era in un reparto che doveva essere fucilato per diserzione: riconobbe uno del paese, a un cenno si gettò in un dirupo, fu dato per disperso, si nascose in convento; tanti anni dopo l’ho accompagnato a rivedere i luoghi, il convento era sempre là. Il nonno era andato in Africa a lavorare come camionista. Camionista era anche mio padre”.

“Mia mamma Novella mi portava al bar a vedere le prime edizioni del festival di Sanremo. Mi faceva imparare le canzoni a memoria, e alle feste salivo sulla sedia a cantarle. Oppure recitavo poesie autobiografiche. Per lei e per la mia tata Ivana, che aveva 15 anni, ero come un bambolotto: mi pettinavano con la banana, giocavano con me. Mio nonno materno, Luigi, suonava la chitarra, e tutti ballavano il valzer. Morì giovane dopo essersi bevuto un mondo e quell’altro”.

“Il prossimo primo luglio torno a suonare a Modena, per 220 mila. Mi diverte perché a Modena è legata la mia prima affermazione musicale: l’Usignolo d’oro. Mi aveva iscritto la mamma. Mi avevano allenato a Vignola con la fisarmonica, avevo preso lezioni di canto dal maestro Boroncini: vocalizzi da 40 minuti. Votavano bambini poco più grandi di noi, con le palette. Presi tutti 10 e vinsi con la canzone “Come nelle fiabe”. Il primo premio era una bicicletta. Il giornale locale scrisse che aveva vinto un pastorello che portava le pecore al pascolo”.

“La magia finì quando tornai a Modena per andare in collegio dai salesiani. Noi montanari eravamo come adesso i migranti. Ero davvero selvatico, cresciuto nei boschi, abituato a far la lotta nell’erba. In città fui schernito, isolato. Mi bocciarono subito. Poi ho fatto ragioneria, una scuola assurda: impari cose per cui basterebbe un corso di tre mesi, ed esci di lì senza sapere che sono vissuti Socrate e Platone. Ebbi solo un momento di gloria, quando scrissi “Tema libero sul tema libero”, un flusso di coscienza sul blocco da pagina bianca: presi “dal 9 al 10”. All’università volevo fare il Dams, ma mio padre pretendeva una laurea seria. Mi iscrissi ad Economia, poi a Pedagogia. Non ho mai finito, ma lui non mi ha mai detto nulla. Ha sempre avuto fiducia in me, il suo unico figlio”.

“Papà morì a 56 anni. Un ictus, mentre faceva manovra con il camion, tra i silos di Trieste. Fu uno choc terribile. La mia vita cambiò. Cominciai a fare sul serio; fino ad allora avevo scherzato. Tornavo a casa alle sette del mattino e mio padre non c’era, si era alzato alle quattro. Io facevo il fighetto, ero dj e mettevo musica da discoteca che detestavo. Ascoltavo Genesis e Pink Floyd. Madonna e Michael Jackson mi facevano orrore. Mio padre mi ha lasciato la sua parte combattente, testarda, che si è unita alle malinconie, alle gioie, alle canzoni che mi arrivano da mia madre. Allora è cominciata la guerra. E da cantautore sono diventato un rocker”.

“Nel 1977 incisi il primo disco, Jenny. Ci eravamo inventati una radio libera, con gli amici di Zocca. Io ero pure l’amministratore, ma di conti non capivo nulla. La vendemmo al Pci, pensando che l’avrebbero lasciata a noi. Mi misero a fare il muratore, lavorai per sei mesi a 8 mila lire l’ora, per sistemare i locali, piazzare i pannelli”.

“Ero di sinistra, ma non sono mai stato comunista. Semmai, anarchico. Non mi piacevano neppure Lotta continua e Potere operaio: studenti figli di papà, che di giorno giocavano alla rivoluzione e la sera tornavano a casa per cena. Facevo teatro sperimentale, stavo con gli indiani metropolitani. Più tardi mi sono riconosciuto in Pannella. Ho creduto al sogno degli Anni 70, e quando è arrivata la Milano da bere ho provato fastidio. Mi considerano un simbolo degli Anni 80, dell’individualismo. Vita spericolata nasce dal “vivere pericolosamente” di Nietzsche. Bollicine era una canzone contro la pubblicità, non sulla droga. Ho cominciato a togliere parole dai testi, sull’esempio dei minimalisti. Meno di zero di Bret Easton Ellis e Le mille luci di New York di Jay McInerney sono libri che mi hanno cambiato la vita. Io il malessere dentro l’ho sempre avuto. Le canzoni sono state il mio modo di confidare cose che nella vita non avrei detto a nessuno, di calarmi nella tragedia della condizione umana. Vedevo crescere la sofferenza, la disperazione, e negli Anni 90 le ho dato voce”.

“La droga era una fuga dalla fatica di vivere. Mi trovarono con 26 grammi di cocaina. Ho fatto quasi un mese di galera, cinque giorni in isolamento. L’unico a venirmi a trovare fu Fabrizio De André, con Dori. Pannella mandò un telegramma. Il carcere fu un modo per disintossicarmi, e anche per resettarmi. Fino ad allora ero convinto di bruciare in fretta, di morire giovane. Mi dissi che dalla sofferenza non si fugge, ed era meglio andare sino in fondo alla vita, per vedere come va a finire questa bella storia. E sono ancora qua”.

“Sanremo era fondamentale, per uno che da bambino cantava per la mamma le canzoni del Festival. Il patron Ravera mi voleva, io resistevo. Lui assicurò che potevo comportarmi come mi pareva. Andai per farmi notare. Guardavo tutti come se fossero bambini dell’asilo, anche Al Bano. In finale “Vado al massimo” arrivò ultima, è vero, ma aveva passato il turno, mentre Claudio Villa era stato eliminato. Qualcosa stava cambiando”.

“Nell’estate del 1984 vissi la rutilante vita della rock star. Una sera rividi Gabriella, una ragazza con cui ero stato per un anno, la accompagnai a casa, la salutai affettuosamente, mica mi disse che dovevo stare attento. Negli stessi mesi venne un’altra a dirmi che aspettava un figlio da me. La mandai via, pensavo fosse matta. Me la ritrovai in giro per Zocca con il passeggino, e mi arrabbiai ancora di più. Quando mi chiese di riconoscere Davide feci l’esame del Dna, e venne fuori che era proprio mio. A quel punto mi offrii di fare l’esame del Dna anche per il figlio di Gabriella, Lorenzo, ma lei non volle. Fu Lorenzo, quando aveva 14 anni, a voler sapere chi fosse il padre. Feci il test: era mio pure lui. L’ho fatto studiare, si è laureato. Davide invece fa l’attore, mi ha anche reso nonno. Il mio primo nipotino si chiama Romeo, purtroppo lo vedo poco perché vive a Roma”.

“Albachiara la scrissi per Giovanna, una ragazza che vedevo scendere dall’autobus a Zocca. Era un pezzo provocatorio, con quel finale sulla masturbazione femminile, allora tabù, anche per le mie amiche. Ma Giovanna non credeva che l’avessi composto per lei, pensava fosse un modo per intortarla, e allora scrissi “Una canzone per te”. Alla fine una storia l’abbiamo avuta, e ci mancherebbe altro, dopo due canzoni così”.

“Poi ho incontrato Laura. Era giovanissima, un po’ stronza, molto bella. La donna della mia vita. Ho tentato due volte di lasciarla. L’ho messa alla porta, e lei si è seduta sulla valigia, fuori dal cancello. Ho dovuto riprenderla, temevo arrivassero i carabinieri ad arrestarmi. Poi le ho telefonato per dirle che era finita, e Laura si è precipitata fuori dallo studio di registrazione. Ha aspettato finché non l’ho fatta entrare. Da lei ho avuto Luca, che è figlio dell’amore. Ora ha 25 anni e studia a Los Angeles, crea giochi per Internet. Laura non la tradisco mai. Fedeltà assoluta. Mettere su famiglia e restare un rocker non è stato facile, ma ce l’ho fatta. Ero stanco di vivere in albergo circondato da una corte dei miracoli, volevo un motivo per tornare a casa la sera”.

(agi.it)
A Teresa De Sio il Premio per formazione giovani autori
Sabato 25 febbraio Teresa De Sio riceverà a Cassino il Premio Nazionale ASDOE - Associazione Docenti Europei presieduta da Antonio Ricciardi. La cerimonia è in programma presso l'Aula Pacis, ore 16.30. Intanto è disponibile "Teresa canta Pino", il nuovo progetto discografico di Teresa De Sio. "Per me questo è un progetto devozionale. Pino sta sulle facce della gente, sulla facciata dei palazzi, per le strade. Non possiamo salutarlo che con la musica".

Parole & Musica: Teresa De Sio
“Alla fine degli anni ’70, Pino Daniele ha tracciato un solco importante che noi musicisti, in particolare partenopei, abbiamo poi in qualche modo seguito. Da tempo tenevo nel cassetto il progetto “Teresa canta Pino”, ma ho rimandato la pubblicazione per diversi motivi. Ci voleva sensibilità ad affrontare le canzoni di Pino, che quello per me era più di un amico, quasi un fratello”.

“Ho esordito verso la fine degli anni ’70 come musicista di musica popolare, con Musicanova. Poi ho seguito strade musicali diverse, dedicandomi alla  sperimentazione sonora con Brian Eno, alla canzone d'autore con Fabrizio De Andrè, collaborando con Paul Buckmaster. Ma non ho mai perso di vista le mie radici. La tradizione musicale va mantenuta perché racchiude gran parte dello spirito di un popolo”.

“La collaborazione con Brian Eno è durata tre anni. Abbiamo prodotto due dischi. Prima avevo viaggiato fra rock, folk e jazz, ricevendo diversi riconoscimenti. Alla fine degli anni 80 ho voluto provare nuove forme di scrittura. Brian e io abbiamo realizzato “Africana“ e “Sindarella suite”. Abbiamo stabilito un rapporto umano molto bello”.

“La nuova scena hip-hop napoletana rappresenta oggi la vera musica di strada. Mi piace, mi interessa molto. Questi artisti hanno molte cose da dire. Sono gli eredi di  quella musica che ha qualcosa da dire e da raccontare”.

(avvenire.it)
100 anni del jazz. Arbore: “Vi racconto un secolo a tutto jazz”. Renzo “Swing” ricorda il centenario del primo disco jazzistico registrato il 26 febbraio del 1917. “Nell’Original Dixieland c’erano due italiani e i francesi importarono questa musica in Europa”.
“E’ stato Nick La Rocca, figlio di un ciabattino siciliano di Salaparuta, a incidere i primi brani della storia del jazz, Livery Stable Blues e Original Dixieland One Step, Fu determinante il contributo degli italiani. Una paternità sempre sottaciuta dagli americani, ma anche dai francesi che sono stati i primi a importare il jazz in Europa. A sdoganare il jazz in Europa fu il critico francese Hugues Panassié, anche se sosteneva che il jazz era solo nero e non lo accettava suonato dai bianchi”.

“Nel 1835 la Lousiana fu venduta dalla Francia agli Stati Uniti, che decisero di offrire i nuovi terreni a chi li avesse coltivati. Tra i coloni c’erano molti siciliani che arrivavano a New Orleans con i loro agrumi a bordo della nave “Palermo”. E tra questi c’erano quasi cento musicisti. A New Orleans, dove approdarono, c’è la prima e unica “Piazza d’Italia” degli Stati Uniti, con il Museo sulle origini italiane del jazz”.

“E’ stata la Original Dixieland Jass Band di Nick La Rocca la prima pietra miliare. Nick La Rocca è anche importante perché è il padre di uno dei più famosi standard jazzistici, suonato da tutti, Armstrong in testa: Tiger Rag”.

“Considero un’autentica pietra miliare il famoso concerto di Benny Goodman del 1938 alla Carnagie Hall di New York. La sua versione di Sing, sing, sing sdoganò universalmente il jazz. Quel brano è stato tra l’altro il cavallo di battaglia di un altro grande jazzista italiano famosissimo negli Stati Uniti, il trombettista di origini siciliane Louis Prima”.

augusto.sciarra@rai.it

 

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