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Music News di Augusto Sciarra

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01-01-2017 18:25

Music News di Augusto Sciarra

(12alle12.it)
Paolo Conte, 80 anni per il cantautore poeta
È il cantore della provincia e del suo immaginario, il cantautore dandy senza messaggio, il poeta che ha cantato meglio l’amore, al ritmo del jazz e della milonga. Ma Paolo Conte, ottant’anni il 6 gennaio, è anche un avvocato, un disegnatore,  enigmista, lettore di thriller scandinavi, un timido pieno di fascino. Nato ad Asti nel 1937, ha scritto capolavori come Azzurro, Vieni via con me e Parigi. “Io non appartengo alla categoria storica dei cantautori che erano molto più giovani di me e portavano avanti istanze sociali, così non ho mai tirato fuori il cosiddetto messaggio”. “Mi è stata fatta spesso una sorridente accusa di essere provinciale. Ma ho sempre spiegato: guardate che tutto sommato la provincia è una passerella di personaggi ben stagliati, per cui diventa abbastanza facile poterne scrivere, poter individuare certe sagome”.

I suoi personaggi sono spesso soli, innamorati infelici, inadeguati rispetto a donne che li dominano, ma anche portatori di una mascolinità antica, antimoderna, ma mai anacronistica. “Sono un po’ il mio specchio. Sono solitario, non mi piace la vita sociale, non mi piace la massa, coltivo poche amicizie, vivo fuori dalle metropoli. Forse mi proteggo”.

Amante di poeti come Gozzano, Caproni e Sbarbaro, nelle sue canzoni ammicca sempre a un certo esotismo con posti mai vissuti davvero come Timbuctù, Babalù e Zanzibar: “Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell’altrove, tipico degli scrittori del Novecento, una forma di pudore che fa sì che certe storie della nostra vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano, più immaginifico, più fantasmagorico, per attutire il senso della realtà e trasformare la povertà che può esserci nel contenuto di una storia raccontata in qualche cosa d’altro”.

Se si dovesse descrivere, Paolo Conte sceglierebbe sicuramente la parola dandy. “Ci sono tre categorie di persone che si somigliano: l’intellettuale, lo snob e il dandy, a cui mi illudo di appartenere. Il dandy è uno che cerca la bellezza in profondità senza assolutamente tirarsela, come si dice oggi: cosa che fa piuttosto lo snob, che è un parvenu, mentre il dandy è proprio sostanza, è vero”.

Time – Note dal Passato: John Fogerty
I Creedence Clearwater Revival hanno scritto alcune delle pagine più interessanti del rock & roll USA. Venivano da un sobborgo della baia di San Francisco. John Fogerty (cantante, chitarrista, leader della band) si era scelto come rifugio il Sud degli Stati Uniti: il Delta. I CCR, dal 1968 al 1970, sono stati il juke-box dell’America. I loro dischi erano suonati sia nella San Francisco chic, sia nelle feste del profondo Missouri.

“Quando abbiamo esordito eravamo degli squattrinati. Anche la nostra casa discografica, la Fantasy, era povera, sopravviveva con il catalogo di dischi prevalentemente jazz. All’epoca ero molto creativo. Non avevamo un manager, ero libero di scrivere nuove canzoni, registrarle col gruppo e farle diventare dei successi. E’ stato un periodo straordinario della mia carriera. Ma ero troppo ingenuo. Mi illudevo che la band, i discografici ed io fossimo una squadra unita. Saul Zaentz (Passaic, 28 febbraio 1921 – San Francisco, 3 gennaio 2014; discografico, produttore cinematografico, “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, “Amadeus”, “Il paziente inglese”) è diventato ricco grazie a noi. Troppo tardi mi sono reso conto che non avrebbe mantenuto le sue promesse, modificando il nostro contratto, dandoci più soldi. Noi abbiamo ricevuto solo le briciole. Il mio entusiasmo degli inizi è andato affievolendosi”.

“Saul Zaentz ci trattava come degli “schiavi”. La frustrazione, per gli altri membri del gruppo, era maggiore: non componevano le canzoni, né le interpretavano. Ma anche i Beatles sembravano una squadra perfetta. Ma in realtà tra loro c’erano conflitti e gelosie”.

“Mio fratello, Tom Fogerty, faceva parte dei CCR. Era più grande, in lui riponevo molta fiducia. Ignoravo che era geloso di me perché avevo più talento. Me ne sono reso conto tardi. Quando ho capito che era gravemente malato, ho cercato un riavvicinamento. Purtroppo non ci sono riuscito. Anche mia madre sperava che riuscissimo a ritrovarci”.

“Sono diversi i gruppi rock che sono diventati prigionieri della loro immagine. Io ho superato da tempo queste fobie. Sono guarito durante un viaggio nel Mississippi. Sono diventato più forte, più sicuro di me stesso, più soddisfatto di me come musicista. Sono migliorato come chitarrista. C’è stato un periodo della mia vita in cui non sapevo più  quale direzione dovevo prendere. Ero psicologicamente turbato, artisticamente confuso a causa di vicende giudiziarie che mi impedivano di entrare in possesso delle mie canzoni. Per guarire sono stato a News Orleans, a Hattiesburg, a Memphis, a Clarksdale, la città più importante del Delta. Ho letto molti libri sul blues, sulla storia di quella regione. Ho comprato molti dischi. Cercavo di capire come e perché fosse nata quella musica. All’epoca un nero doveva scegliere tra diventare un musicista o lavorare in un campo di cotone, dall’alba al tramonto, con una temperatura di quaranta gradi e più. Ecco perché c’erano tanti bravi musicisti. Il blues del Delta era più intenso e ispirato degli altri. Nella musica di Robert Johnson c’è una dimensione metafisica, e un rapporto col sovrannaturale. Molti musicisti di quei luoghi possedevano uno strano potere”.

“Mio padre era alcolizzato, ma anche un sognatore. Aveva un vero talento di scrittore. Immaginava di essere Ernest Hemingway. Ma preferiva restare da parte. Quando ero ragazzino lo vedevo ubriaco e infelice. I problemi sono aumentati dopo il divorzio da mia madre. Per questo sono stato incapace di scrivere una canzone d’amore. Non ero in grado di sentimenti perché non li capivo. Non provando amore, non riuscivo a descriverlo”.

augusto.sciarra@rai.it

 

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